05 Feb, 2024 | Consulenza, In evidenza
Riproponiamo l’articolo di Luca Gori e Giammaria Gotti* relativo al tema dell’ammissione dei nuovi associati
Il codice del Terzo settore (Cts) impone agli enti del Terzo settore (Ets) una serie di requisiti che ne conformano l’autonomia organizzativa e funzionale al fine di assicurare un ordinamento interno a carattere democratico.
Tra questi, assume particolare rilievo il cosiddetto “carattere aperto” degli Ets, imposto dagli artt. 21 e 23 che disciplinano l’ammissione di nuovi associati nelle associazioni del Terzo settore, cui si aggiungono l’art. 35 per le associazioni di promozione sociale (Aps) e l’art. 61, c.1, lett. d) a proposito dei requisiti di accreditamento per i centri di servizio per il volontariato (Csv). Tali norme, di recente, hanno attirato l’attenzione degli interpreti e degli operatori, creando alcuni problemi interpretativi e sollecitando diversi interventi del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e della giurisprudenza amministrativa.
In realtà, si tratta di un tema assai risalente nella riflessione giuridica civilistica e costituzionalistica. Per i partiti politici, in particolare, da tempo si riflette sull’esistenza sia di un obbligo di organizzazione interna democratica, sia sull’esistenza di un diritto del cittadino ad essere ammesso al partito politico, in relazione alla funzione costituzionale svolta da quest’ultimo ai sensi dell’art. 49 della Costituzione.
La disciplina dell’ammissione di nuovi associati nel codice del Terzo settore
La disciplina sul carattere aperto degli Ets è ispirata al cosiddetto “principio della porta aperta”, tipico delle società a scopo mutualistico come le cooperative. Tale principio tende a tutelare l’aspettativa dell’aspirante socio ad essere ammesso nella cooperativa, obbligando quest’ultima a fissare nel proprio atto costitutivo i requisiti per l’ammissione dei nuovi soci e la relativa procedura secondo criteri non discriminatori e coerenti con lo scopo mutualistico e l’attività economica svolta (v. artt. 2524, 2527 e 2528 del Codice civile).
Un principio che sembrerebbe accolto anche dagli artt. 21 e 23 del Cts per le associazioni del Terzo settore e dall’art. 35 Cts per le associazioni di promozione sociale (Aps).
In particolare, l’art. 21 del Cts (“Atto costitutivo e statuto”) impone alle associazioni Ets di disciplinare nel proprio atto costitutivo i «requisiti per l’ammissione di nuovi associati» e «la relativa procedura», «secondo criteri non discriminatori, coerenti con le finalità perseguite e l’attività di interesse generale svolta». Con specifico riferimento alla procedura, l’art. 23 – rubricato: «Procedura di ammissione e carattere aperto delle associazioni» – prevede, «se l’atto costitutivo o lo statuto non dispongono diversamente», che in un’associazione del Terzo settore l’ammissione di un nuovo associato venga fatta con deliberazione dell’organo di amministrazione e che quest’ultimo debba motivare la deliberazione di rigetto della domanda, con la possibilità che l’interessato possa chiedere che sull’istanza si pronunci l’assemblea o un altro organo. Tali disposizioni si applicano anche alle fondazioni il cui statuto preveda la costituzione di un organo assembleare o di indirizzo, in quanto compatibili ed ove non derogate dallo statuto.
Con riferimento alle Aps, infine, l’art. 35, comma 2, il Cts dispone che non possono essere associazioni di promozione sociale quelle associazioni «che dispongono limitazioni con riferimento alle condizioni economiche e discriminazioni di qualsiasi natura in relazione all’ammissione degli associati …». Ciò ha indotto l’interpretazione ministeriale a sottolineare la «particolare pregnanza nel caso delle associazioni di promozione sociale (ai sensi dell’articolo 35, comma 2)» del principio della porta aperta (circolare del Ministero del lavoro e delle Politiche sociali n. 20 del 27 dicembre 2018).
Una particolare prescrizione riguarda gli enti associativi accreditati come Csv. L’art. 61, comma 1, lett. d) Cts prevede che le associazioni riconosciute del Terzo settore che intendono accreditarsi come Csv debbono prevedere, nel loro statuto, «l’obbligo di ammettere come associati le organizzazioni di volontariato e gli altri enti del Terzo settore, esclusi quelli costituiti in una delle forme del libro V del codice civile, che ne facciano richiesta, fatta salva la possibilità di subordinare il mantenimento dello status di associato al rispetto dei principi, dei valori e delle norme statutarie».
Il significato del “carattere aperto” degli Ets
Dalla lettura delle norme appena richiamate, si evince come il Cts abbia voluto imporre agli Ets di disciplinare nell’atto costitutivo i requisiti di ammissione di nuovi associati e la relativa procedura, lasciando però un ampio spazio all’autonomia statutaria nel decidere come concretamente regolare tali aspetti. Con riferimento ai requisiti di ammissione, infatti, l’unica indicazione perentoria è che essi non debbano essere discriminatori e che appaiano coerenti con le finalità perseguite e l’attività di interesse generale svolta. Per quanto riguarda la procedura, poi, fatta salva l’esigenza che essa risulti espressione di criteri non discriminatori, viene lasciata ampia libertà agli Ets di variare e conformare in via statutaria il meccanismo legale d’ingresso nell’associazione. I tre commi dell’art. 23, infatti, si aprono con l’inciso «Se l’atto costitutivo o lo statuto non dispongono diversamente». Leggermente più stringente pare invece la disciplina dettata per le Aps, alle quali il Codice vieta espressamente di imporre «limitazioni con riferimento alle condizioni economiche e discriminazioni di qualsiasi natura» in relazione all’ammissione di associati.
Ad ogni modo, è chiaro che il “carattere aperto” degli Ets, per come disciplinato dalle citate norme del Cts, sia volto esclusivamente ad assicurare che la compagine associativa di un Ets sia formata – e, nel corso della vita dell’ente, venga arricchita – da soggetti portatori di interessi coerenti con le finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale perseguite dall’ente. Questo anche al fine di evitare la cristallizzazione al suo interno di oligarchie e immutabili situazioni di potere interno. È evidente, quindi, che la “porta aperta” dà corpo ad una garanzia del principio di democraticità, la quale ha bisogno di essere rafforzata anche da altri istituti (l’elettività delle cariche, la previsione di un termine ragionevole di durata di quest’ultime, forme di verifica della responsabilità, l’applicazione della regola maggioritaria, ecc.).
“Carattere aperto” non significa, invece, escludere la possibilità per un ente di introdurre filtri all’ingresso di nuovi associati o, addirittura, attribuire all’aspirante associato un vero e proprio diritto soggettivo all’ammissione nell’Ets. Quest’ultima – come si dirà – appare una interpretazione in palese contrasto con il diritto costituzionale. Diversamente, sarebbe assai arduo per un ente assicurare la conservazione tra gli associati degli scopi da esso perseguiti e garantire che le nuove adesioni si pongano in armonia con la propria identità associativa.
Taluni uffici del registro unico nazionale del Terzo settore (Runts) hanno però mantenuto, in questa prima fase di attuazione della disciplina del codice, un atteggiamento di chiusura rigorosa nei confronti di tutti quegli enti che abbiano inserito nel proprio statuto clausole limitative della platea degli associati. Non sono quindi mancati casi problematici, che hanno portato il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e la giurisprudenza a prendere posizione sul tema.
I chiarimenti dal Ministero e la posizione della giurisprudenza
Un primo chiarimento è venuto dalla nota del 6 febbraio 2019, n. 1309 del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, a cui veniva chiesto di chiarire se l’art. 35 Cts sopra citato, relativo all’ammissione di nuovi associati nelle Aps, precludesse ogni potere discrezionale nella fissazione dei criteri di ammissione di nuovi associati. Il Ministero, attraverso considerazioni generali che valgono anche per le associazioni del Terzo settore, spiega che appare più conforme alla ratio legis che le previsioni statutarie siano volte non tanto ad individuare, in negativo, requisiti in grado di porre limiti alle adesioni, quanto a tracciare, in positivo, una sorta di “identità associativa”, un sistema di finalità e valori cui il potenziale associato possa riconoscersi e possa essere chiamato a rispettare e condividere. Per questi motivi, sarebbero contrarie alle norme del Cts non solo quelle clausole che vietino tout court l’ammissione di nuovi associati, ma anche tutte quelle che permettano a chiunque indiscriminatamente di essere ammessi. Pertanto – afferma il Ministero – «le richiamate previsioni normative non possono essere interpretate nel senso di attribuire al terzo un incondizionato diritto all’ammissione».
La nota del Ministero, dopo l’enunciazione di tali principi, prende in considerazione specifici requisiti di ammissione, per valutarne l’ipotetico legittimo inserimento negli statuti. Per esempio, con riferimento all’assenza di condanne penali, il Ministero ritiene che tale requisito possa legittimamente prevedersi ed imporsi per statuto ogniqualvolta venga in esame un reato per sua natura incompatibile con le finalità associative e/o con le attività svolte dall’associazione di cui trattasi.
Più di recente, il Ministero (nota n. 4581 del 6 aprile 2023) è tornato ad esprimersi sul punto, sulla base di alcuni quesiti posti da un ufficio regionale del Runts che rappresentava che alcuni enti, traendo “ispirazione da movimenti o credo religiosi”, contemplavano nei relativi statuti norme che limitavano l’accesso o la possibilità di assumere ruoli all’interno dell’ente all’appartenenza a confessioni religiose specifiche. Il Ministero ritiene che contrasti con la richiamata previsione dell’articolo 35, comma 2 del Codice l’eventuale norma statutaria che circoscriva l’adesione esclusivamente agli appartenenti ad un determinato credo o ad una determinata confessione religiosa. Tuttavia, il Ministero ricorda che, «a fronte del maggiore rigore del regime giuridico delle Aps», sono invece meno restrittive le previsioni generali in materia di associazioni del Terzo settore. Una simile previsione statutaria, quindi, potrebbe ritenersi pienamente valida se imposta da un’associazione del Terzo settore non qualificata come Aps. Si dovrà attentamente valutare, caso per caso, la coerenza di un simile requisito con le finalità proprie dell’ente. Ente che ben potrebbe svolgere le proprie attività di interesse generale sulla base di un sistema valoriale che parta da un’ispirazione iniziale ad un credo di natura religiosa, fermo restando che il perseguimento di finalità di evangelizzazione o di culto non rientra nel novero delle finalità proprie degli Ets. Si tratta, a nostro avviso, di una impostazione problematica, poiché è evidente che l’appartenenza ad una confessione religiosa può essere un tratto distintivo della finalità o dell’attività anche di una Aps: costringere una associazione – che pure voglia essere una Aps – a optare per un’altra qualifica, risulta assai dubbio.
Infine, è stato anche il giudice amministrativo (Tar Veneto, sez. I, n. 368/2023) a chiarire la portata del principio in commento, con una pronuncia originatasi da un caso in cui un’associazione si era vista negare l’iscrizione al Runts in virtù del suo presunto carattere non aperto. L’ufficio regionale del Runts, infatti, non aveva dato corso alla richiesta di iscrizione in quanto lo statuto dell’associazione legittimava l’ammissione alla stessa soltanto a determinate categorie di soci (nella specie, università e istituti di istruzione superiore). A giudizio del Tar, l’individuazione di specifici requisiti di ammissione non poteva essere ritenuta manifestamente irragionevole in un caso del genere, in considerazione della connotazione altamente settoriale nonché dell’altissimo livello delle attività scientifiche e formative organizzate dall’associazione.
In questo modo il Tar ha chiarito che con la locuzione “carattere aperto” «si fa essenzialmente riferimento all’attitudine di tali enti di accogliere nuovi membri, senza restrizioni o limiti ideologici, politici, religiosi o di qualsiasi altra natura … Ma ciò non significa affatto che tutti i membri debbano necessariamente vedersi attribuiti gli stessi poteri decisionali o che, come avviene nella fattispecie, non possano essere previste restrizioni alla modalità di adesione o alle attività dell’organizzazione». In altre parole, ciò che importa, al fine di ritenere rispettato il carattere aperto richiesto dall’art. 23 Cts, è che la eventuale disciplina associativa dei requisiti di accesso non assuma alcuna evidente valenza discriminatoria. Bisognerà quindi guardare, caso per caso, alle finalità proprie dell’ente e alle attività da esso svolte e, in relazione a queste, valutare l’eventuale valenza discriminatoria o irragionevole del requisito di ammissione posto in statuto.
Peraltro, di recente, si è sviluppata anche una prassi notarile del tutto conforme ai descritti indirizzi interpretativi ministeriali e giurisprudenziali. Oltre ad un studio del Consiglio Nazionale del Notariato sul tema (7/2023), si segnala la massima n. 15/2023 della Commissione Terzo settore del Consiglio notarile di Milano, che ha riconosciuto la liceità delle clausole degli statuti di associazioni Ets che contengano previsioni che limitino l’adesione di categorie di associati in ragione, ad esempio, di un criterio anagrafico (maggiore o minore età) o del possesso di un determinato titolo di studio o di merito, qualora tali limiti risultino giustificati dalle finalità perseguite dall’associazione. Pertanto, sarebbero lecite clausole che imponessero limiti di età per l’adesione ad associazioni che abbiano per scopo lo svolgimento di attività che presuppongano una determinata maturazione e responsabilità, così come clausole che imponessero un determinato titolo di studio per accedere ad associazioni che svolgano attività di elevato livello scientifico.
A queste previsioni si aggiunge quanto previsto per i Csv dal richiamato art. 61, c.1, lett. d) che prescrive, ai fini dell’accreditamento di una associazione come Csv, che lo statuto preveda, fra l’altro, «l’obbligo di ammettere come associati le organizzazioni di volontariato e gli altri enti del Terzo settore, esclusi quelli costituiti in una delle forme del libro V del codice civile, che ne facciano richiesta, fatta salva la possibilità di subordinare il mantenimento dello status di associato al rispetto dei principi, dei valori e delle norme statutarie». È evidente che, in linea con le precedenti indicazioni ministeriali, la disposizione non può esigere che lo statuto attribuisca un diritto all’ammissione per tutti gli associati che ne facciano richiesta; peraltro, la stessa disposizione consentirebbe di subordinare il mantenimento al rispetto di determinate prescrizioni valoriali o statutarie. Se fosse così, tuttavia, non avrebbe alcun senso dover ammettere un soggetto, salvo poi escludere il mantenimento dello status di associato subito dopo. Cosicchè, anche in questo caso, il principio della porta aperta è stato interpretato dall’Organismo nazionale di controllo (soggetto accreditante) nel senso indicato dagli orientamenti ministeriali, affermando la necessità «che i requisiti di ammissione siano stabiliti nello statuto con la maggiore precisione possibile, riducendo il margine di discrezionalità dell’organo amministrativo (o di altro organo competente) e che tali requisiti siano connessi rispetto alla finalità ed attività», ma ammettendo che dei requisiti di ammissione possano essere comunque previsti.
Per una lettura costituzionalmente orientata del principio della porta aperta applicato agli Ets
L’esame di queste indicazioni interpretative potrebbe già esaurire il presente commento. Bisogna ammettere però che a queste conclusioni si giunge tramite un’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina sopra richiamata.
Come noto, infatti, la Costituzione italiana non pone un vincolo di democraticità interna all’organizzazione delle formazioni sociali (v. art. 18 Cost.), salvo quanto necessario al fine di tutelare i diritti inviolabili dell’uomo al loro interno. La previsione in via normativa di un onere di democraticità interna è dunque ammissibile, ma a condizione che tale onere sia correlato, in termini di proporzionalità e strumentalità, all’obiettivo costituzionalmente rilevante che si intende promuovere. In questo caso, il valore è quanto enunciato dall’art. 1 del Codice del Terzo settore.
È quindi necessario che l’interpretazione delle norme che introducono oneri concernenti l’ordinamento interno degli Ets sia fatta restrittivamente. Inoltre, occorre evitare che il carattere democratico, assunto dal Cts come sintomatico del perseguimento di finalità meritevoli di promozione, finisca per tradursi in un irragionevole fattore di esclusione dal perimetro del Terzo settore per taluni soggetti, in violazione degli articoli 2, 18 e 118, quarto comma, della Costituzione.
Il Cts ha definito un preciso ordinamento interno dell’associazione del Terzo settore affinché ciascun individuo che aspiri ad essere associato possa concorrere effettivamente al perseguimento delle finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale proprie di tale ente. Ma questa esigenza non può tradursi in un’eccessiva restrizione della libertà di associazione, come avverrebbe se le norme sopra analizzate venissero interpretate nel senso di impedire la fissazione di precisi requisiti per l’ammissione di nuovi associati. Interpretazione che è peraltro incompatibile con il tenore letterale degli artt. 21 e 23 Cts.
Tali articoli, come ricordato, lasciano un ampio margine di autonomia agli enti nel disciplinare requisiti e procedura di ammissione. Quest’ultimo aspetto, tuttavia, non è esente da problematiche. Si è infatti finito per assegnare agli Uffici del Runts (o al notaio ex art. 22 Cts) il compito di verificare l’eventuale manifesta incoerenza con gli scopi dell’ente e il carattere manifestamente discriminatorio delle clausole statutarie che impongono requisiti per l’adesione di nuovi associati, trasferendo di fatto alle amministrazioni competenti un potere ampiamente discrezionale al momento della valutazione della sussistenza dei requisiti richiesti dal Codice. Il rischio è quello però di pregiudicare, oltre che la libertà di associazione, l’uniformità di trattamento, in violazione dell’art. 3 Cost. Di questo sembra consapevole lo stesso Ministero, che nella nota del 2023 sopra citata ha avuto premura di precisare che «l’attività istruttoria [svolta degli uffici del Runts] non può generare apprezzamenti di natura discrezionale, dovendosi piuttosto essa mantenere entro i precisi binari dell’oggettivo accertamento della sussistenza, nello statuto dell’ente, delle condizioni di conformità alle norme imperative del Codice stesso».
Una porta “semi-aperta”
Nonostante il richiamato atteggiamento di chiusura di alcuni uffici del Runts, è chiaro come le indicazioni ministeriali e giurisprudenziali, così come la più recente prassi notarile, abbiano ridefinito il “carattere aperto” degli Ets.
A dispetto della rubrica dell’art. 23, gli Ets non sono associazioni “aperte” nel senso che chiunque ha diritto ad accedervi. L’associazione ben può (rectius, deve) fissare requisiti che traccino una precisa “identità associativa”, che dall’aspirante associato dovrà essere condivisa e rispettata. Un Ets, per svolgere al meglio la propria attività di interesse generale, ben potrà rigettare la domanda di ammissione di determinati soggetti tutte le volte in cui tale ammissione renderebbe estremamente difficile, se non impossibile, lo svolgimento di quella attività.
Si potrebbe dire, in definitiva, che la porta degli Ets è “semi-aperta”: spalancata per coloro che sono in linea con il sistema di finalità e valori perseguito dall’associazione (e ben delineato nello statuto), ma chiusa per coloro che a tale sistema sono del tutto estranei. Del resto, la coerenza di cui parla l’art. 21 Cts è richiesta, prima ancora che all’aspirante associato, all’Ets stesso: l’Ets non può rischiare, aprendo indiscriminatamente la propria porta, di finire per essere incoerente con sé stesso.
* Scuola Superiore Sant’Anna, Centro di ricerca Maria Eletta Martin
25 Gen, 2024 | Consulenza, In evidenza
Riproponiamo l’articolo di Daniele Erler per Cantiere Terzo Settore relativo al chiarimento del Ministero dell’Economia e delle Finanze per i contribuenti minimi
Uno dei fondamentali interrogativi per le organizzazioni di volontariato (Odv) e le associazioni di promozione (Aps) che svolgono o intendono svolgere una parte della loro attività in forma commerciale (con conseguente titolarità di partita Iva) riguarda la possibilità, a seguito dell’entrata in vigore il 1° gennaio scorso dell’art. 5, comma 15-quinquies del decreto legge n. 146 del 2021, di continuare ad utilizzare il precedente regime fiscale (solitamente quello disciplinato dalla legge n. 398 del 1991) o debbano obbligatoriamente optare per il regime forfettario dei contribuenti minimi (disciplinato dalla legge n. 190 del 2014, art. 1, commi da 58 a 63).
Il tema è già stato affrontato nell’articolo “Iva e Terzo settore, alcuni chiarimenti per il 2024”.
Il dubbio sorge dal fatto che la formulazione letterale dell’art.5, comma 15-quinquies del decreto legge n. 146 del 2021 sembra obbligare le Odv e le Aps che hanno fatto registrare l’anno precedente ricavi pari o inferiori a 65.000 euro, ad utilizzare il menzionato regime forfettario dei contribuenti minimi.
Il 6 dicembre 2023, presso la Commissione Finanze della Camera dei Deputati, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha risposto ad un’interrogazione parlamentare in tema di semplificazioni fiscali per il Terzo settore.
Fra i chiarimenti forniti uno ha riguardato proprio il tema in oggetto: il Ministero ha precisato come le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione, a partire dal 1° gennaio 2024, “possano avvalersi” del regime forfettario dei contribuenti minimi.
Tale posizione rafforza in modo importante l’interpretazione per cui le Odv e le Aps abbiano la facoltà, ma non l’obbligo, di utilizzare il regime forfettario previsto dalla legge 190 del 2014, potendo continuare ad avvalersi del regime Iva per cui hanno optato fino ad ora (ad esempio il regime di cui alla legge 398/91, che è quello utilizzato dalla stragrande maggioranza degli enti di tipo associativo).
Una simile impostazione rappresenta una lettura coerente e sistemica del quadro normativo esistente, prevenendo inoltre differenze ingiustificate fra enti di diverse dimensioni, nel senso di evitare ad Odv e Aps con ricavi pari o inferiori a 65.000 euro di utilizzare obbligatoriamente un regime (quello forfettario dei contribuenti minimi) i cui reali vantaggi sono perlomeno dubbi, se si considera che si tratta tra l’altro di un regime valido ai soli fini Iva, con conseguenti importanti incertezze per quanto riguarda le imposte dirette.